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da Marco 8 per Dina
Ho cominciato ad amare quella ragazza il giorno in cui non ha ricordato il mio nome. Era lì che imbarazzata mi fissava supplichevole, meritevole di un indizio, ma a me piaceva guardarla arrossire nelle sue leggere debolezze, mi piacevano i suoi occhi lucidi di vergogna. E non le suggerii nulla, davvero nulla quel giorno, per concedermi tutto il tempo di amarla, per sentirmi il cielo di settembre farsi chiaro dentro. La amai in quel momento e me ne accorsi quando continuai a chiedermi della sua vita, cercadola nelle sue pupille verdi, mentre lei era ancora lì a schioccare le dita per richiamare alla mente quel nome che poco le importava conoscere. Non glielo dissi, ma dopo otto anni di amore progettavamo il nostro bambino e la casa dei suoceri da restaurare con i soldi messi da parte. A 16 anni sognavamo insieme di diventare cuochi sul mare, sulla terra, dappertutto. Ma poi entrambi scegliemmo di lavorare nell'azienda della sua famiglia e ci stava bene, andava tutto bene. Poi sua zia venne a mancare una mattina d'inverno. Lei inizia a prendersi cura delle sue cugine, non bambine, ma neanche adulte. 17 anni e 19. Io non so ben dire cosa mi sia successo, perché la amavo da dentro, la amavo negli occhi, con la bocca, nella mente. Ma sua cugina rideva. Sguaiatamente un attimo e quello dopo silenziava. Con tutta la potenza della malinconia. Faceva i conti e parlava quattro lingue. Parlava di tante cose del mondo, ma non ne aveva conosciuta neanche una. Parlava della fusione chimica nella sfera siderea, ma non conosceva la sensazione del bacio di una canna, del bacio di una lingua, di un bicchiere di troppo; parlava l'egiziano, ma non conosceva l'odore dell'afa d'Egitto.Se la guardavi per più di un minuto poteva piangere. Aveva il dolore in ogni atomo del suo organismo, in ogni fibra dei suoi muscoli, in ogni strato di epidermide, perché da sola contro tutti, denudata della cosa più preziosa, sentiva l'assenza come una malattia che la stava scavando, lentamente dall'interno. Ma lei soffriva tacendo, piangendo con lo sguardo, senza lacrime, urlando di rabbia quando si ammutoliva. Ed era bella. Era bella. Aveva gli occhi grandi così neri che non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Mi piaceva perdere la mia mano nei suoi ricci neri quando per scherzo la accarezzavo. Mi piaceva la rotondità del suo seno. La forma a cuore della sua bocca. La tonalità olivastra della sua pelle. Ma forse di lei non mi attrasse nemmeno tutto questo, forse di lei iniziai ad amare la vittoria che provavo nel farla stare bene dentro il suo lutto. Il sabato sera lei e sua sorella uscivano con la nostra combriccola di 12 persone. Cantavamo in macchina, tanto, fino a perdere la voce, ridevamo, parlavamo sottovoce, scherzavamo, eravamo seri. La mia fidanzata mi ha solo rimproverato qualche volta, perché temeva che col mio atteggiamento avessi potuto infastidire sua cugina che tutti proteggevano e curavano gelosamente. Mi ha solo rimproverato qualche volta, perché riteneva stessi esagerando nel farla ridere. Mi ha solo rimproverato qualche volta, perché dava per scontato il mio amore per lei, la mia eterna presenza al suo fianco. E anche io. Una notte mi chiesi che ca**o stessi combinando. Se amavo lei che era il suo opposto, come potevo desiderare sua cugina? Forse era proprio questo il punto. La volevo perché era tutto ciò che mia moglie non era. Quando accarezzavo quella ragazza che mia moglie non era, non mi rifiutava, non l'ha mai fatto. Si adagiava nel mio abbraccio e affondava il viso nella mia Spalla, potevo sentire le sue labbra sorridere. Era di me che aveva bisogno. Stavo salvando una ragazza dalla disperazione e mi sentivo un eroe meritevole delle sue attenzioni. Ed io delle sue, perché presto capii che quel trucco sugli occhi era per me, quei tacchi un pó piu alti erano per me, quel profumo sul collo era per me, il profumo dei suoi capelli era per me. Mi diceva "Sto male" e dovunque mi trovassi lasciavo tutto per correre da lei, mi diceva "quanto ci manchi" quando ero lontano per lavoro e la chiamavo rassicurandola. Poi una sera ho capito che io non potevo essere quello che voleva. Lei in me stava cercando un surrogato materno, qualcosa che la facesse sentire unica al mondo. Quel tipo di affetto che io non le avrei mai saputo dare. Non cercava qualcuno da amare, ma qualcuno che continuamente si prendesse cura di lei, che la salvasse dalla solitudine, dalla malinconia. Ed io Non avrei potuto salvarla per sempre. Non avrei saputo farlo. Mi stava logorando. Così, una sera la lasciai. Una parola inappropriata lasciare, non eravamo mai stati insieme, neanche mai un bacio, eppure quando eravamo insieme agli altri, poco importava degli altri, importavano I miei occhi su di lei e i suoi nei miei, il desiderio di spogliarci li davanti a tutti se avessimo potuto, le frasi sussurate all'orecchio stupide, senza senso, ma impresse ancora nella mia memoria. Non ci siamo mai detti nulla, né tanto meno confessato qualcosa, ma I gesti e la gelosia di mia moglie hanno sempre confermato che all'esterno tutto era chiaro. Ci siamo lasciati con la mente. Lei ha sofferto tanto. Non lha mai detto a me, ma a mia moglie ripeteva che psicologicamente era crollata, senza esplicare mai il motivo, mia moglie diceva "sarà l'università a farla stressare", ma in realtà credo conoscesse anche lei il motivo, lo capivo quando mi diceva, preoccupata per sua cugina "va un pó da lei, ha bisogno di te", e poi basta si ammutoliva, senza aggiungere altro. Io non ho sofferto per le distanze che decisi di prendere nei confronti di sua cugina, per il bene di mia moglie, di nostro figlio. Ma sabato invitammo lei e la sua famiglia a Cenare a casa nostra. Prima di chiudere la serata, in piedi, davanti alla porta, l'ho guardata, per la prima volta veramente, non mi ero mai accorto di quanto fosse straordinariamente bella. D'istinto le ho passato le dita tra I capelli come facevamo un tempo, l'ho stretta più forte che potevo, sentivo il suo corpo, le sue forme completamente aderenti al mio corpo, il suo profumo, la mia bocca nel suo collo. Siamo stati dei minuti interminabili cosi. Senza dirci niente, solo ascoltando le nostre pelli che si volevano. Ma non ci siamo detti nulla. Neanche stavolta. Se ne è andata guardandomi fisso, come a chiedermi :"sta ricominciando tutto? Mi salverai di nuovo? "e con un sorriso sicuro le ho fatto capire che si, mi ero convinto che senza di lei sarei stato bene. E lo ero stato, po**a miseria. Ma il suo profumo e I suoi occhi e I suoi tacchi e I suoi capelli quella sera, il suo sguardo triste, disperato e distrutto me l'avevano fatta mancare. Salvarla mi riempie, riempirla mi fa sentire completo.
7 agosto 2016 - Avellino
Categoria: Amore impossibile
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