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Notevolmente alterata mi pose questa perentoria domanda dopo una mia secca critica...
C’è qualcosa che ti piace di me, puoi dirmi se c’è qualcosa che ti piace di me?
Quelle parole all’interno di una calda e umida bettola di Città del Messico risuonavano dentro di me come uno schiaffo perentorio dato su un gong da un bonzo tibetano nel silenzio di Lhasa…
C’è qualcosa che ti piace di me, puoi dirmi se c’è qualcosa che ti sta bene di me?
La mia mente correva sui ricordi che nessuna goccia di pioggia poteva mai lavare via, la pala sul soffitto smuoveva l’aria arrancando come del resto i miei pensieri.
C’è qualcosa di me che ti stà bene?
Lei non sapeva che attendevo con ansia la notte fresca per assaporare le sue parole, la mia attesa era snervante alle volte e quando il trillo del telefono emetteva il suo richiamo, fingevo di muovermi con estrema lentezza per non apparire impaziente come invece io ero.
La sua voce melodiosa, carica d’Amore e di sensualità scacciava perfino le mosche dalle pareti di quella squallida stanza di Mexico City, si aggrappavano al soffitto per evitare i miei strali e mi osservavano per tutto il tempo, sapendo che una volta attaccata la cornetta del telefono avrei rivolto di nuovo la mia attenzione a loro usando il mio sigaro cubano per soffocarle con gli anelli di fumo che lanciavo loro contro pensando alle sue parole sussurrate e alle sue promesse d’amore all’indomani, ci saremmo visti forse, di lì a pochi giorni, mai il tempo di dirsi una parola, i nostri corpi parlavano per noi, stringendosi quasi a soffocare, i nostri baci erano assassini, entrambi cercavamo di soffocare l’altro d’Amore, con dei baci così appassionati, da apnea prolungata, restavamo quasi soffocati, quasi affogati in quell’oceano dei sensi.
Amava essere presa da me ovunque ci trovassimo, questo la eccitava più di ogni altra cosa.
I miei vecchi stivali da peones incallito mi osservavano muti, gettati alla rinfusa uno su un tavolo vecchio come la mia voglia di correre da lei.
Qualcosa che mi piaceva di lei ?
Praticamente tutto, i suoi occhi come un alabastro dalla forma e un taglio medio-orientale delle donne vedute solo a Petra.
I suoi occhi acquosi e penetranti mi immergevano tra le barriere coralline del Queensland australiano e il colore dei suoi occhi come le foglie d’acero in autunno, cadute in una pozzanghera trasparente di Hyde Park a Londra.
Un cittadino del mondo come me non aveva più da tempo una barriera visibile di frontiera, la mente vasta abbastanza da non avere più una qualsiasi voglia di demarcazione, le mie labbra serrate e indurite da gaucho lo rammentavano a chiunque mi si parava davanti.
Del resto la mia celata pistola vissuta come me, non attendeva altro che fuoriuscire dai pantaloni e il mio sguardo di ghiaccio sorretto da occhi grigi come il mare d’inverno lo testimoniava in modo perentorio, nessuno si azzardava minimamente a contrastare il mio sguardo, evidente come le strisce sul manto della tigre…i companeros del villaggio del resto si facevano il segno della croce al mio passare.
I miei passi stanchi e uggiosi come la sua lontananza.
La mancanza di Lea era troppo struggente per riuscire a sopportare anche la loro presenza, bastava già il caldo del deserto a rendere l’aria pesante e irrespirabile.
Camminando a testa bassa, le falde del cappello coprivano i miei sguardi disperati a terra, il suo viso mi tormentava, i ricordi dei suoi gemiti d’amore, le sue labbra che si serravano e si spalancavano a seconda dei miei colpi, i suoi gemiti seguivano i miei movimenti ritmici e cadenzati come le onde per un surfista.
I suoi glutei perfettamente rotondi pieni e sodi come un violino di Stradivari mi rammentavano che l’esistenza di Dio era certa, tale perfezione soltanto Lui poteva mostrarla, un connubio perfetto
della creazione che vedeva primeggiare soltanto i suoi occhi….e le sue labbra come petali di rosa, un fiore tra i fiori
Ma non erano quelle le prerogative che avevano incantato e imprigionato il mio animo come un rematore alla gogna di un vascello ispanico.
Era il suo sguardo, la sua voce melodiosa che echeggiava nello spazio deserto della mia mente come il volo sincronico di tanti fenicotteri rosa che decollano dalle acque del lago d’Aral battendo le ali sul pelo dell’acqua, ecco questo era il suono delle sue parole in me e questo era il suo eco perenne, indimenticabile,restava infine soltanto la sua dolcezza e i suoi modi e gesti, ma queste cose sono inenarrabili, non possono essere catalogati in rigidi schemi mentali, un fiume di latte e miele può essere soltanto urlato da un muezzin dall’alto di un minareto della moschea blù di Istanbùl, non può essere spiegato così in due parole…….basta forse soltanto dire che l’amo e nulla più.
E che non avrei mai sparato ai peones del villaggio, mi aveva spiegato troppo bene cosa era l’Amore del quale ne ero intriso proprio come una spugna come i miei compaesani di tequila bùm bùm, come il mio cuore…!
Il sonno della loro siesta nascosto dai sombreri era paragonabile all’oblio della mia mente, dovevo correre da lei e abbandonare tutto questo, fondermi a Lea è indispensabile come l’acqua in quel deserto…..
Ti amo Lea, ti basta?
Roberto
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