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Per non dimenticare...
Sarajevo 1991-1995
Mi chiamo Selma. Sono nata nel 1981. Prima della guerra abitavo, con i genitori e un fratello, a Foca, dove ho avuto un'infanzia felice. Però tutto è sparito a un tratto e con la mamma e il fratello ho dovuto fuggire da Foca, prima a Gorazde e poi a Sarajevo. Mi è dispiaciuto molto dover lasciare i miei libri, i miei giocattoli, la mia cameretta, lasciare il papà. È un momento che non dimenticherò mai, ma la mamma ha detto che così dovevamo fare. Siamo venuti dalla nonna a Sarajevo, dove mi piaceva molto venire per le feste e in vacanza, ma ora la guerra c'è anche qui e la vita è diversa da prima. Non più passeggiate lungo la Miljacka, solo granate e il dormire in cantina. Non sono andata neanche per le strade vicine. Ma poi è stata chiusa l'acqua e siamo dovuti andare a prenderne fino alla fabbrica di birra. Ci andavamo tutti i giorni, la mamma, mio fratello e io, ed ero contenta di poter uscire di casa. Il giorno 15 di gennaio ero particolarmente allegra. Mi sono vestita in fretta, sono corsa fuori per prima, impaziente di andare. Presso la fabbrica di birra non c'era molta gente come di solito e il nostro turno è arrivato in breve. All'improvviso, un lampo, e un botto stridente. Mi sono trovata a terra insieme al fratello e la mamma che ci copriva col suo corpo. Si sentivano urla e gemiti. Ero sveglia, guardo la mamma e il fratello, eravamo vivi. Poi ho sentito la gamba intirizzita. Ho pensato che fosse per la detonazione, ma vedendo il sangue ho capito di essere ferita. La mamma ha preso il mio nastro per i capelli e legato forte la gamba per fermare il sangue e poi con l'auto di mio fratello mi ha portata fino alla casa più vicina. Lì si trovava già un ragazzo ferito alla testa. Piangeva e chiamava la mamma, il papà e la sorella. lo non piangevo. Però nella macchina, che ci portava all' ospedale, ho pensato di perdere i sensi. Ma ho resistito. All' ospedale, davanti alla sala operatoria, c'erano le telecamere. Ho rivisto il ragazzo con la ferita alla testa e ho saputo che i suoi genitori erano morti e la sorella ferita. La scheggia mi ha traforato la gamba, spezzettando l'osso e poi non so altro. Comunque, il foro d'uscita è stato cucito, quello d'entrata no. Ho tutta la gamba ingessata, per muovermi uso le stampelle. In ospedale ho passato nove giorni che non dimenticherò mai. Quasi ogni giorno le granate colpivano l'ospedale, io temevo che qualcuna potesse colpire proprio la mia camera e che si ripetesse tutto. Non riuscivo né a dormire né a mangiare. Chiedevo alla mamma di portarmi a casa. Ora sono a casa da due mesi. La gamba è tuttora ingessata. Sto seduta per tutto il giorno e mi annoio tanto. Ogni esplosione di granata che sento mi fa tremare. Sono costretta a chiedere aiuto per scendere in cantina perché non ho ancora imparato a scendere le scale con le stampelle. Ora ho un desiderio solo: che la guerra finisca e che papà venga a Sarajevo. Spero accoratamente che succeda fra breve.
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